Una rondine non fa primavera … di Giuliana Borghesani

Quella mattina Orsola fu svegliata da uno strano suono, uno sgocciolio continuo che proveniva dall’esterno. La giovane aveva trascorso l’inverno presso i due buoni vecchi che l’avevano salvata e protetta dalle grinfie dei soldati che il conte aveva inviato sulle sue tracce. I giorni erano passati lentamente e la paura di essere trovata e trascinata nuovamente al castello si era allentata, anche se non era del tutto svanita. Orsola, dunque, si svegliò e come il solito fece per lavarsi con l’acqua nel catino. In realtà doveva andare presso il focolare, riattizzare la brace e scaldare l’acqua, che era gelata durante la notte. Ma quel giorno scoprì che la lastra di ghiaccio era meno spessa, anche se ancora non era sciolta del tutto: un segno che il tempo mutava e che la primavera si avvicinava a gran passi. La giovane tirò un sospiro di sollievo, la necessità di nascondersi, di stare quasi segregata in quella casa ospitale le aveva lasciato una sorta di ansia, quasi come se dovesse vivere in un tempo sospeso, in attesa che la tragedia si abbattesse sul suo capo. Ora il vento dell’Est, annuncio di tempi nuovi per la natura e per gli animali, la faceva sperare in un mutamento della sua sorte. Mentre rimuginava sulla sua possibile libertà, sentì muoversi dietro di sé la vecchia che ormai amava di un affetto filiale.

«I ghiaccioli si sciolgono e suonano una musica nuova, - disse la donna, dando voce ai pensieri di Orsola – tra poco arriveranno le rondini e le viole. La vita continua, ragazza».

«Primavera, l’anno ricomincia la sua corsa», rispose la giovane, sorridendo. Non ottenendo risposta Orsola si volse a guardare la donna che per la durata dell’inverno aveva considerato come quella madre che non aveva più.

«Ricordati che una rondine non fa primavera, gioisci per il sole che torna, ma non allentare la tua attenzione e non scordare la preoccupazione. Se è vero che il tempo muta e i mesi lasciati indietro svaniscono nel nulla, gli uomini ricordano, invece, soprattutto i superbi che non hanno mai intenzione di scordare un affronto».

Lo sgocciolio continuava allegramente e due merli dal becco giallo zampettavano nella neve del campo, dove apparivano qua e là piccole zone brune, indizio anche questo di terra che tornava a emergere dopo il lungo letargo. Orsola si recò nella legnaia, bisognava riaccendere il camino, la brace sola non bastava a scaldare la piccola casa e il sole era pallido, benchè si rafforzasse di ora in ora. Sulla proda del ruscello che scorreva vicino qualche timida violetta e primule gialle occhieggiavano, coraggiose, iniziando a risvegliare i colori, che l’inverno bigio e freddo aveva trascinato lontano. Rientrò in casa, annunciando di aver trovato quei fiori e che sperava che fossero un segnale di tempi migliori.

«Buoni, potresti raccoglierne un po’ per pranzo», commentò la vecchia. All’espressione stupita della giovane, la donna le fece un sorriso e le spiegò che quando si vive di poco, quando ci si deve, o si vuole, accontentarsi di quello che si trova intorno, allora si scopre la ricchezza del Creato.

«Le primule, che ami così tanto perché ti indicano la primavera che giunge, sono anche un regalo, si possono mangiare, insieme alla cicoria, sono buone e fresche, un’insalata tenera e delicata. Dopo tanto tempo, in cui non abbiamo avuto altro che le castagne o i fichi seccati l’estate passata, quando solo le rape hanno aiutato a vivere e uova e formaggio sono stati il nostro cibo per lunghi mesi, ora possiamo rinfrescare oltre che la mente e il cuore anche la nostra tavola».


«Si impara sempre qualcosa», commentò, sorridendo, Orsola.

I gironi scorrevano tranquilli, e ormai le rondini erano arrivate. Sotto il tetto della casa, che aveva accolto la giovane, il vecchio nido era stato sistemato e la coppia di rondini aveva iniziato a vivere in attesa della nuova famiglia. I due vecchi erano contenti di Orsola e della sua giovinezza; quasi dimentica del Conte e delle sue insidie, cantava a mattina a sera, si faceva accarezzare dal vento, mentre badava alle oche con i piedi nudi immersi nell’acqua ancora gelida del ruscello. Il cielo era variegato di nuvole chiare, così come i suoi pensieri, chiari anch’essi, benchè qualche lieve nuvola li oscurasse a tratti. I giorni si allungavano e in cielo le rondini garrivano, assaporando la libertà e così faceva anche Orsola, ma la tempesta era in cielo e presto si sarebbe abbattuta sui giusti e sugli ingiusti.

Una sera, al tramonto si scatenò una burrasca: lampi illuminavano le tenebre violacee e tuoni scuotevano la terra; chiusi in casa i due vecchi e Orsola aspettavano che la furia del vento si calmasse e ce la pioggia cessasse, quando un colpo alla porta li fece sobbalzare. Forse non avrebbero aperto in fretta se il tempo fosse stato clemente, ma così non si poteva lasciare un cristiano all’aperto senza dargli riparo. Orsola andò ad aprire la porta e si trovò davanti un uomo intabarrato e bagnato come un pulcino. Lo fece entrare e gli venne dato posto accanto al camino. Orsola andò a prendergli una coperta di lana per riscaldarsi, mentre la vecchia gli metteva tra le mani una bevanda calda.

Il vecchio, invece, in un angolo, osservava attentamente lo sconosciuto, sapeva di averlo già visto, ma non riusciva a ricordare dove. L’uomo, dopo aver sorseggiato la tisana, alzò la testa e si voltò per ringraziare, fu allora che la luce tremolante della fiamma ne illuminò il volto. Quegli occhi neri, quella barba scura e scomposta, il naso adunco e, soprattutto, l’unica ciocca bianca di capelli che gli attraversava la testa dettero al vecchio il nome che non rammentava: era Silvestro, il capo degli sgherri del Conte. Orsola non era al sicuro se quel tipo la riconosceva. In effetti, l’uomo inarcò le sopracciglia, una volta che, riscaldato e rifocillato, poté osservare meglio il luogo e i suoi abitanti. La vista di Orsola l’aveva evidentemente sorpreso, ma non disse niente a riguardo, ringraziò per l’accoglienza e chiese riparo per la notte.

«C’è un tempaccio tale che mi impedisce di ripartire, se mi poteste ospitare ve ne sarei grato», disse con tono apparentemente gentile, ma che non ingannò il vecchio nemmeno per un attimo. Così, dopo la cena e dopo che tutti si furono sistemati per la notte, il vecchio parlò sotto voce alla moglie.

«Deve scappare, deve andarsene subito, domani sarà già troppo tardi». Si erano affezionati a lla giovane Orsola, ma era il momento che se ne andasse per il suo e per il loro bene.

La vecchia si avvicinò al giaciglio della ragazza e le pose una mano sulla spalla, quando si è in fuga si è sempre sul chi vivve così Orsola si svegliò all’istante.

«Che succede?», domandò, preoccupata.

«Le rondini aspettano che i loro piccoli lascino il nido, li nutrono, li proteggono e insegnano loro a volare, poi li lasciano andare, per il loro bene. Devi andare, quell’uomo racconterà al Conte che sei qui e quello tornerà, stai certa. Ti ho preparato un fagotto con del cibo, ci ho messo anche delle calze di lana e uno scialle. In fondo a una calza troverai qualche moneta, poca cosa ma tutto quello che possiamo darti. Sei stata per noi come una figlia e ora, come le rondini, ti lasciamo andare. Che la Madonna ti protegga», detto questo la vecchia diede a Orsola una carezza con la mano ruvida per il lavoro quotidiano e alla giovane parve di sentire la leggerezza di un prato di erba novella. Si alzò in tutta fretta e in silenzio, si vestì e si caricò sulle spalle il fagotto che le aveva dato la vecchia e, senza aspettare che il gallo annunciasse il nuovo giorno, uscì nella notte ancora fredda e umida e si diresse verso un nuovo riparo dove rifugiarsi e dove far perdere le sue tracce.

«Verso oriente, dove sorge il sole, forse laggiù sarò al sicuro».

L’orizzonte albeggiava e, rosa e oro, illuminava il cammino, quasi una promessa di quiete dopo tanto vagare.


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