I giorni della Merla di Giuliana Borghesani

Non sapeva più da quanto tempo camminava, aveva vagato tanto nei boschi quegli ultimi giorni, nascondendosi tra i cespugli e gli arbusti ogni volta che sentiva un rumore improvviso. A nulla era valso scappare e celarsi dietro panni non suoi, il conte di Val Nera aveva sguinzagliato i suoi sgherri per ricercare la giovane che aveva attirato i suoi occhi e che aveva mosso le sue brame, e il conte non era uomo da ricevere rifiuti. Aveva avuto paura, quando aveva sentito abbaiare i cani e scalpitare i cavalli, erano il segno che gli uomini del signore avevano tutte le intenzioni di riportarla al castello, trascinandola, irridendola e, forse almeno uno, compiangendo la sua sorte. Non era facile per una contadina essere bella, avere la pelle liscia e gli occhi chiari, quasi quanto una dama. Non era facile, perché, a differenza di quella, il padrone aveva su di lei ogni potere, anche il più laido e, dopo aver soddisfatto i suoi appetiti, l’avrebbe abbandonata al suo destino: scarto del potente, giocattolo per i mercenari che abitavano nel castello, moglie imposta a qualche contadino che su di lei avrebbe sfogato le frustrazioni quotidiane.

La fuga, travestita da maschio, il sacrificio delle lunghe trecce, tutto pur di salvarsi e andare lontano. Ma dove? Il bosco era stato il suo rifugio, conosceva una cascatella che scorreva a difesa di una grotta aperta dietro le sue acque, si era nascosta lì, supplicando i Santi del Cielo e la Madonna che i cani non annusassero le sue tracce, che gli uomini non conoscessero il luogo, che i cavalli non si imbizzarrissero, sentendo la sua presenza. Era andata bene, i cavalieri erano passati oltre e per il momento era salva. Aveva trascorso la notte in quell’anfratto, sgranocchiando un pezzo di pane nero, che era riuscita a ficcarsi nella bisaccia prima di scappare. Si era avvolta nel corto mantello di lana ruvida e aveva tentato di dormire un po’. Ma non poteva restare lì, la luce del primo sole l’aveva svegliata, infreddolita e spaventata; aveva messo fuori il naso e si era accorta che un nuovo velo di neve aveva ricoperto le peste degli inseguitori, però ora avrebbe segnalato subito la sua presenza.

Quindi era urgente uscire e muoversi, velocemente, camminando sul ruscello e sulle sue rive gelate, sperando che né il fiuto dei cani né le sue orme indicassero la via che aveva percorso. Ben presto il silenzio del bosco e una luce tiepida sembrò aiutare la giovane nella sua fuga, e Orsola respirò più serena l’aria frizzante della mattina, cercando di orientarsi fra i tronchi muschiosi degli abeti e dei larici.

Fin da piccola era solita inerpicarsi nel bosco, portava con sé le briciole di pane che riusciva a raccattare dalla parca mensa di casa, e si fermava con il naso all’insù a osservare le corse e i salti degli scoiattoli dalla lunga coda rossa, quando non riusciva a cogliere il bagliore verde degli occhi delle volpi, che guizzavano rapide da un tronco all’altro.

Così ora sapeva come orientarsi e non si sentiva del tutto sperduta, però il freddo era troppo pungente, erano i giorni più freddi dell’anno: i giorni della Merla. Chi aveva una casa e un focolare vi si chiudeva dentro, scaldandosi le mani, bevendo latte caldo col miele, e sperando che arrivassero presto i giorni tiepidi della primavera. Ma quanto era lontana! Troppo freddo e troppa fame ancora dovevano passare.

A proposito di fame, Orsola era abituata a poco cibo, non avevano molto da mangiare al villaggio, la caccia era riservata al signore e ai suoi familiari, cibo sostanzioso per i soldati, ma i contadini si dovevano accontentare, qualche pesce arrostito, pescato nel fiumiciattolo vicino al villaggio, qualche gamberetto di fiume, cotto con qualche rapa in tanta acqua, giusto per riempire la pancia. Quanto a bere, non c’era vino, per i contadini, loro potevano bere solo l’agresto, un liquido che stava tra il vino e l’aceto, ma che almeno garantiva di non essere putrido, come spesso era l’acqua del pozzo della corte. Nonostante le privazioni cui era stata soggetta fin dalla nascita, ora la giovane aveva fame; un tozzo di pane secco e una crosta di formaggio erano l’unico resto di cibo che aveva trovato, frugandosi nella tasca dell’abito, troppo poco per calmare i morsi della fame, ma sufficienti a dare l’impressione di un pasto. Il silenzio era interrotto dal gracchiare dei corvi, che spiccavano con il loro colore nero sulla neve candida, Orsola camminava con circospezione lungo le rive gelate, attenta a non segnalare con le sue impronte la strada seguita. Era certa che il signore di Val Nera non avrebbe rinunciato tanto facilmente alla sua preda, avrebbe sperato di prenderla per fame e per stanchezza; e se il freddo avesse avuto la meglio sulla ragazza, bene, ne avrebbe di certo trovata un’altra per sfogare i suoi bassi istinti. Non era facile camminare al freddo e con la pancia vuota, ma non era consigliabile smettere, così, passo dopo passo, Orsola continuò la sua fuga lontano dal castello. Non sapeva quanto aveva camminato e quanto si era allontanata, ma quello che sapeva era che la sera avanzava veloce, le ore dell’inverno sono corte, passano in fretta e la luce limpida e gelida del giorno trascolorava senza quasi accorgersene in ore più fredde e solitarie, più pericolose, e benché gli animali della notte non sempre fossero crudeli come gli uomini, certo era che era bene non farsi sorprendere dal buio senza un riparo. E lei, per il momento, non aveva nessuna idea di dove rifugiarsi. Arrivò al limitare del bosco e davanti a lei si stendeva una pianura deserta, vigneti spogli, campi innevati, nessun luogo dove nascondersi, se fossero arrivati gli uomini del conte, e senza nemmeno un cespuglio nel quale ripararsi per la notte. Era ormai il crepuscolo e un lungo ululato fece rabbrividire la giovane: lupi. La fame non stringeva lo stomaco solo a lei, anche altri animali soffrivano di quel gelo bianco e silenzioso, che impediva ad alcuni di brucare e ad altri, come ai lupi, di cacciare. E lei, in quel momento, era una preda facile. Gli ululati si avvicinavano e raccontavano una tragedia già scritta. Con le ultime forze Orsola si spinse oltre una piccola ondulazione del terreno, sperando… non sapeva nemmeno lei cosa. Un filo di fumo, lieve come una ragnatela le fece balzare il cuore in petto: qualcuno, una casa, un fuoco, forse la salvezza. Tra il lusco e il brusco intravide una casupola e verso questa rivolse i passi, appesantiti dalla stanchezza, ma accelerati della paura dei lupi e degli inseguitori.

Con le ultime forze rimastele, arrivata davanti alla porta la giovane bussò, chiedendo aiuto.

«Apritemi, per l’amor di Dio, sono un’anima in pericolo».

Un uomo dai capelli bianchi aprì la porta.

«Entra, anima in pericolo, stiamo per andare a cena e il fuoco è acceso, mia moglie sarà felice di avere ospiti». Una donna della stessa età dell’uomo che le aveva aperto la porta stava rimestando con un mestolo di legno in un paiolo appeso sul fuoco. Un gatto stava accoccolato vicino alla fiamma, mentre un vecchio cane riposava sotto il tavolo, e ogni tanto alzava il muso a osservare se ci fosse qualcosa da mangiare per lui.

«Grazie… - iniziò a dire la giovane, pensando di spiegare perché si trovava in quella condizione, poi si ricordò degli abiti che indossava, tentò di scurire la voce per meglio somigliare al ragazzo che impersonava – Mi sono perso mentre …».

«Siediti e non parlare, scaldati e riposati», l’interruppe la donna, senza nemmeno girarsi a guardarla. Dal paiolo nel camino usciva un aroma invitante, era profumo di verza e di cotenna di maiale, misto a cipolle e spinaci, e forse con qualche carota. Era sapore di casa, anche sua madre mescolava a lungo nella pentola una minestra altrettanto saporita. E nella brace del camino si intravedevano le rape messe ad arrostirsi. E il pane, tagliato in grosse fette, e la ricotta, bianca e morbida… a Orsola parve d’essere giunta in Paradiso. Ma il Paradiso non è di questa terra, mentre la giovane assaporava l’idea della sicurezza, ecco che uno scalpitare di cavalli la precipitò nella più cupa disperazione, dovevano essere loro, l’avevano trovata, per lei non c’era nessuna speranza. La donna al focolare parve non aver udito niente mentre l’uomo che le aveva aperto si avviava alla porta, zoppicando leggermente. Udì la voce aspra dei soldati del conte che chiedevano se fosse passata da lì una donna, e sentì la risposta di lui, che l’atterrì.

«No, di qui non passa mai nessuno, ma entrate pure, fa freddo e potrete scaldarvi un poco». Tese l’orecchio per udire la risposta ma riuscì solo a sentire un borbottio confuso, poi i cavalli si allontanarono e il vecchio rientrò in casa. Orsola trasse un sospiro di sollievo, forse era andata bene.

«Apparecchia la tavola, – le disse la donna, sempre girata verso il fuoco – Credo che tu sappia come si fa, nonostante i tuoi abiti. Le ciotole e i cucchiai sono là dentro» e indicò uno scaffale da un lato.

«Se mostri di non temerli si disinteressano di te. Avevamo una figlia, una volta, se si fosse tagliata i capelli e fosse scappata sarebbe ancora con noi», l’uomo parlò con voce triste. Orsola fece come le avevano detto, poi si avvicinò alla vecchia, le fece una carezza su una guancia.

«Grazie. È pericoloso ospitarmi, il conte non sarà contento finchè non mi avrà ritrovata».

«A tavola. - rispose quella, mentre una lacrima le scendeva silenziosa su una gota rugosa. – Ha carne di ogni tipo di selvaggina, il conte. Non resterà digiuno. Se ha perso la lepre avrà il fagiano. Noi abbiamo verdura e pane, non pensarci più».

Intorno al tavolo, con le ciotole ricolme di zuppa, con il pane scuro inzuppato nel brodo, i vecchi mangiavano senza far domande, Orsola sentiva di avere una speranza. Fuori era freddo, i giorni della Merla gelavano la campagna e i boschi, spingevano i lupi affamati fino agli ovili e alle case, ma non penetravano in quella casa, non riuscivano a indurire i cuori. Intorno al desco quella sera si sentiva già una promessa di sole.

 


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